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Avventurarsi in una scrittura, che è una e più geografie (e molteplici avventure, case, luoghi)
Una casa è una gabbia, un monumento, il mausoleo di tutti i viaggi, un osservatorio, il ventre della madre. La mia ora è piena di finestre sopra un porto. È un oggetto preoccupato, che di notte trema. Ti fa sentire insicuro. I mobili vanno e vengono. Non è la mia casa ma la casa del mio televisore. Il mondo entra attraverso il televisore e siede sulle mie sedie. Io sono il guardiano di tutte quelle cose invisibili. Un poeta è colui che monta la guardia agli oggetti inanimati di questo mondo. E questo spiega perché il mio respiro è essenziale. Non accusatemi di copiare Dio. C’è un vecchio conto da sistemare tra noi. Il mio respiro dà vita alle piante e una sola volta ha resuscitato un asino. Presi la malattia dell’animale e gli diedi la mia salute. Questa mia nuova casa è fatta di finestre. La luce di Beirut entra come una maledizione totale. Bianco bianco è il sole. Il biancore della morte.
(…)
Intanto Beirut geme e brucia. Ma non una singola voce si sente a favore dei muscoli lacerati, degli occhi accecati, delle facce bruciate dalle sigarette, delle vertebre spezzate da un’ascia… È come se Beirut fosse diventata un trattato di anatomia che si legge in qualche angolo buio dell’inferno.
Etel Adnan, “Nel cuore del cuore di un altro paese”, Multimedia Edizioni. Traduzione: Raffaella Marzano
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