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Martina Campi scrive con un’aria che si scrive a voce – e l’aria trema un poco, sempre. Forse scrive su un treno, viaggiatrice. Sembra afferrare l’elemento dello scrivere a tutt’occhi, e lo fa – quasi per sorridere, “sostenere” l’andare, riuscendo a fermare, soffermarsi a sfamare come il più semplice dei necessitati moti, non solo interiori, e non solo “per sé”. Scrivendo ci s’incontra. E l’incontro sull’altra faccia di un foglio, o di altri fogli e altre facce è necessario allo scontro quotidiano – lo scontro più pacifico quello che vorremmo e vorremo col mondo – il mondo che si accorge di noi magari se facciamo un piccolo movimento strano col bacino mentre tutti guardano ai propri polsi senza orologi, o agli orologi lontani dai polsi – dicevamo, Martina scrivendo fa come piccoli salti sul posto che però diramano lontano – ci fanno pensare a una danzatrice semplice che con un piccolo solletico acrobatico – che potrebbe anche impaurire gli abitudinari dei grandi gesti scenici – con un suggerito turbamento del senso, coinvolge e porta a un canto e un sospiro trattenuto che fa stupore e come suole e vuole poesia – con lo sforzo del vissuto, l’allenamento alle acrobazie del sapersi giostrare tra elementi e parola, parola ispirata, inspirata e poi espirata con il movimento del bacino e un cerchio con il collo e la testa come per volersi trattenere, e non dire altro, leggermente. La si incontra in viaggio, questa sua andatura felice, questa rimbaudiana viaggiautrice che dai polsi al bacino “fa cose” come scrivere, come un’arte da funambolo a voce, che trema in equilibrio di canto.

Ecco alcuni suoi versi inediti, col ringraziamento di e per averceli, avermeli concessi. Lei li ha chiamati così, Un mucchietto:

***

Un mucchietto di Martina Campi

 

 

 

 

Parole per il pomeriggio

 

 

C’è sempre un silenzio

quando ci si mostra

e fuori è il pomeriggio

io ad esempio non trovo

parole per il pomeriggio

davanti o accanto, mi perdo

nel dire o non dire, o anche

solo pensare qualcosa

in risposta agli occhi, alle attese.

E tutto questo volare

dagli uni agli altri e da te a me

che è libero, incosciente

è un movimento che ci potrebbe

anche portare, a lasciarlo fare,

più vicini.

Qabala(h))

 

Tu che guardi in su

verso un cielo di spazi

e vuoti dai giorni passati

lentamente ritroviamo parole

lentamente guardiamo in su

tutte queste stelle e le distanze

solo per vedere quello che è

il nostro passato da accordare

a una luna ch’è sparsa di stelle

e lasciarsi andare

lasciarsi liberi

lasciarsi andare.

Viviamo negli spazi vuoti.

Viviamo negli spazi vuoti.

Viviamo negli spazi vuoti.

 

 

 

 

 

 

 

Fotografia di un fruscio e la goffaggine dei ritagli

Nella memoria le strade

non si confondono ma sono

là, dove tutto è intatto e fermo.

Chi siamo noi che, in cerca

del contatto, vorremmo farci

dire ciò che non è più

in questo tempo reale

e confonderci le sorti, confonderci

dai finestrini.

C’è chi li tiene aperti perché

c’è qualcuno che ci salta dentro

al volo di un sorriso

lanciandone a manciate, di sorrisi

dimenticati in memorie che sfuggono

(suoni  trascurati dello scorrere)

E con un’occhiata sola ai visi

Sa capire, voce del verbo piovere,

che gli ombrelli oggi non serviranno.

Di bianco nel sole

 

Il cielo ha un occhio di

nuvole e sole

che si estende all’infinito padano

saremo ancora amici,

dopo questa pioggia

instancabile, di polvere

e macigni che ci trasfigurano

il sonno notturno?

Alla fine del giorno

saper contare non basta.

Dopo tutto, io portavo

un cappello per il sole e tu no

tu il sole ce lo avevi

addosso tutto

erano spazi aperti, senza

alberi che ci facessero ombra,

solo un acquedotto, passava di là e poi

si perdeva nel nulla.

Quella non era la pianura.

Nella pianura seppelliamo

i nostri morti in fila

senza più occhi.

Per questo ci siamo procurati

un mazzolino di iperico perforato,

per proteggere quello che ci resta nel cuore

dalla terra e dal sole

nella terra e nel sole

nella pietra.

Declini

Le disposizioni sul tavolino,

azioni compiute desiderate

in minuti di passione,

che dicono la storia sfacciata

come i colori nella forma

il carattere dei caratteri

e così le sedie, di fronte

paiono vecchie, storte, goffe

paiono, con quei colori antichi,

per starci ad affondare

e sentirsi sempre stanchi,

sull’altro lato dei fogli.

Neanche un colpo di vento

dalla finestra, che sollevi

le sorti dei seduti.

*

 

Grazie per la disponibilità.

Con queste parole in volo

mi sento la voce. Fucina

d’abbracci su tabula rasa.

Anxiété chez moi. Il brivido

dei treni. Luce sui cavi, il

sole precipita all’orizzonte.

Non accorgersi delle ore

è una tecnica per starsene

ancora lì. Not separated.

Che parola grande “tutto”

pronunciata, letta, necessaria,

spietata. La fatica delle ore.

*

Il vuoto è pieno di altre cose

da guardare, di rimpianti che ci

permettiamo. Memorie contenute

negli spazi di una credenza.

Dopo le trascendenze

c’è poco da aggiungere, o almeno

gesti d’affetto lineare. La calma

del cielo azzurro che si irride, che

stride allo sfrecciare, l’educazione

alle emozioni, camminare

insieme nel buio letterale.

Tabelloni di edilizia acrobatica.

Le sere incrinate. Le voci

dei cortili in città. Le voci intorno.

Sono seduta su Erich Fromm

perché altrove non c’era posto.